Ma in America non boicottano le tv italiane

La globalizzazione si fa sempre in due? È notizia di pochi giorni fa che il ministro dello Sviluppo economico, Paolo Romani, ha chiesto al Consiglio di stato un parere sulla “reciprocità fra stati” in vista del beauty contest per i multiplex del digitale terrestre. Per il ministro, si tratta di una richiesta «obbligatoria» per risolvere in tempi rapidi l’emanazione del bando di gara. Secondo Paolo Gentiloni, ex ministro delle Telecomunicazioni Pd, che per primo ha sollevato il caso sulla stampa, si vogliono solo mischiare le carte a Sky, impresa a capitale americano, che vorrebbe mettere un piedino anche nel digitale terrestre.

La vicenda ha aspetti curiosi. Come già ricordava Marco Mele su questo giornale, Sky è in Italia dal 2003, ha già ottenuto l’autorizzazione per il canale terrestre Cielo, ha avuto luce verde dalla Commissione Ue per partecipare alla gara per una delle cinque frequenze del digitale terrestre. Come dire: c’è una storia di presenza e d’investimenti in Italia, ed è difficile immaginare eccezioni in punta di diritto quando si apre quello che è solo l’ultimo capitolo, coerente con l’evoluzione del nostro sistema televisivo.
Ma il paradosso sta nelle motivazioni. Per quanto la scatola parlante sia al centro della vita degli italiani, il business dell’intrattenimento televisivo non è quello degli armamenti. Quasi cent’anni fa Vilfredo Pareto poteva ironizzare su come i protezionisti si divertissero a moltiplicare le “industrie nascenti”, da far crescere in serra, al riparo dalla concorrenza estera, fino a includervi tecnologie emergenti come il calesse e l’aratro. Oggi cloniamo i settori strategici: quando si era diffusa l’ipotesi che la Pepsi potesse acquisire la Danone, Jacques Chirac mise in chiaro che in Francia «strategici» sono anche gli yogurt.

In attesa che un nostro player televisivo vada in America a mostrare i muscoli, varrebbe la pena accorgersi che lo sbarco dei minacciosi stranieri è un genere di “conquista” che va a tutto vantaggio degli invasi. Amplia l’offerta a vantaggio dei consumatori, crea opportunità di occupazione, fa affluire risorse. È più saggio preoccuparsi dei capitali che fuggono, che di quelli che arrivano. Nel nostro paese, fra il 2003 e il 2007, in media gli investimenti diretti esteri hanno avuto un peso pari all’1,44% del Pil, contro il 4,03% del resto dell’area euro.

Se nella crisi la priorità è tornare a crescere, forse sarebbe il caso di mostrarsi più aperti e ospitali. Innanzi alla comunità degli investitori, l’apparire è già essere. Per invertire un trend che vede l’Italia schiacciata sul cliché, magari esagerato, di un paese imprevedibile sul piano legale e vampiresco su quello fiscale, serve a nulla accertarsi delle barriere degli altri. Lasciamogliele tutte, e siano loro a pagarne il conto. Il protezionismo danneggia chi lo pratica. Da investimenti freschi, quale che sia la bandiera che battono, noi come paese non abbiamo che da guadagnare.

Fonte: Il Sole 24 ore
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