Bernabei: «Così il palinsesto decide il destino dei governi»

Novant’anni a maggio, accento toscano inossidabile. Ettore Bernabei ha fatto la storia italiana (anche) attraverso lo sguardo sul sistema televisivo. E di tv e Rai parla in questa intervista col Riformista.
Dopo aver diretto, dal ‘56 al ‘60, Il Popolo, organo della Dc, ha assunto nel 1961 – presidente del Consiglio Fanfani – la direzione generale Rai fino al 1974. Ne ha visti tanti di intrecci tra politica e tv. «Sulla tv si scrivono fiumi di parole», racconta nel suo studio. «Per un verso o per un altro mi occupo di questi problemi da cinquant’anni e vedo che politici, intellettuali, manager, sindacalisti sono tutti lì a dire “quanti minuti ha avuto quello o quell’altro?”».

Bernabei, dove va la tv oggi?
Il problema non è tecnologico: è di contenuti. La tv, accompagnando immagini in movimento alla parola, ha un potere di persuasione unico: un filmato professionale o amatoriale, una fiction o un quiz offrono comunque modelli di comportamento. Tutto questo non è ancora entrato nella mente della maggior parte di quanti si occupano di questi problemi.

L’apertura del digitale terrestre ad altri attori come Sky cambia lo scenario?
Non c’è dubbio. Ma lo scenario televisivo è già cambiato con il passaggio dall’analogico al digitale: dalla notte al giorno. Ormai è necessario occuparsi dei contenuti della comunicazione digitale, altro da ciò che abbiamo visto fin qui.

Il mercato italiano si sta muovendo in questo senso?
Non mi sembra. E neppure quello internazionale.

Quale il nodo da sciogliere?
Bisogna partire dalla crisi. Si dice che è stata provocata dai bond subprime. Qualcuno – come Evelyn de Rothschild – sostiene che era maturata per mancanza di eticità. Pochissimi hanno pensato che è stata determinata anche dalla comunicazione televisiva e telematica. Ecco perché il nocciolo sta nei contenuti.

In che senso?
Un primo tipo di programmazione è durato dalla metà degli anni ’50 all’inizio degli anni ’80. La tv europea era la più equilibrata: governi ed establishment si erano resi conto dell’enorme potenza di questo mezzo. In un’epoca di disponibilità tecnologiche limitatissime si decise di concedere l’esercizio della comunicazione televisiva a una società pubblica in monopolio, che rispondesse al governo che a sua volta ne avrebbe risposto al Parlamento. In Inghilterra, Germania, Francia, Spagna, Italia e Belgio fu stabilito che il cittadino desideroso di ricevere il servizio tv pagasse un canone. Così avrebbe acquistato anche il diritto di controllarne la qualità: principio fondamentale. Negli Usa, invece, si preferì che le trasmissioni fossero finanziate con la pubblicità. E i padroni della tv diventarono i produttori e i distributori dei beni di consumo e dei servizi propagandati.

Poi cos’è successo?
La deregulation è una brutta parola che descrive il sistema di abolire le regole morali, civili e tecniche che per secoli avevano regolato le attività economiche e finanziarie. Negli anni ‘80 il mondo fu pervaso da una programmazione tv senza regole: permissiva, trasgressiva, che dava e dà l’illusione che ognuno sia padrone di fare quel che vuole, anche danneggiando chi gli vive accanto; perché tecnologia e scienza, con la potenza del denaro, assicurano felicità illimitata a tutti. Questa la grande illusione data dalla tv degli anni ’80 e ’90. E dei primi anni 2000.

In Italia tv commerciale vuol dire Berlusconi.
Non è colpa di questo o quell’altro capo azienda, o di un direttore generale di turno. Il nodo è che tutti si trovano nella condizione di trasmettere ciò che produce il mercato. L’umanità è in una fase di grande incertezza, come le lepri sotto ai fari. Uomini e donne, adulti e giovani non si accorgono di quanto siano frettolose e banali le sceneggiature di un reality show: affidate alla recitazione di attori non di livello o dilettanti aspiranti attori, che ubbidiscono alla voce fuori campo di registi, organizzate per dare l’illusione che tutto avvenga spontaneamente. Ma tutto serve per distrarre la gente dal preoccuparsi di ciò che sta accadendo nelle attività produttive e finanziarie.

Per questo ci siamo accorti della crisi improvvisamente, quando era già scoppiata?
La finanziarizzazione delle imprese produttive e commerciali era servita a costruire un enorme sistema di interessi mondiali – la globalizzazione – fuori da ogni controllo delle autorità politiche nazionali, ma propagandato per i mirabolanti vantaggi che avrebbe assicurato. Tv e internet hanno dato a intendere per anni che la globalizzazione avrebbe fatto felice tutto il mondo. A metà degli anni ‘80 la gente cominciò a bofonchiare, perché quello sceneggiato o quel quiz non piacevano abbastanza. Provò a girare da un canale all’altro, ma ci trovava sempre la stessa minestra riscaldata, magari con l’aggiunta di un po’ di spezie. L’insoddisfazione televisiva, accompagnata da una certa inquietudine, pian piano ha portato popolazioni più avvedute – come quella italiana – a esprimere non solo un generale mugugno (che c’è sempre stato per la tv in tutto il mondo) ma massicce ondate di protesta elettorale. In Italia, dall’inizio degli anni ’90, dopo appena una decina d’anni di questa tv illusoria, la gente ha cominciato a votare contro chi era al governo, ritenendolo, a torto o a ragione, responsabile della programmazione non soddisfacente. Nel frattempo era cambiata la legge: responsabile delle telecomunicazioni non più il governo, ma il Parlamento. Poi, certo, se vogliono i governi possono influire anche oggi. Ed è giusto che lo facciano.

E poi?
Nel ‘92 il “mugugno” da insoddisfazione televisiva tolse sei punti alla Dc: cosa mai successa dal 1948. Per quei sei punti la Dc perse la leadership e poco dopo si autodisciolse. Venne la seconda repubblica, e altri governi. Se si toglie la parentesi di pochi mesi dell’esecutivo Berlusconi, i governi Amato, D’Alema, Ciampi e Dini furono tutti orientati a sinistra. La tv non cambiò di un millimetro. Nel 2001 gli italiani mandarono a casa la sinistra e fecero venire la destra, senza che l’elettorato fosse diventato di destra. Molti si chiesero: avete fatto una nuova repubblica? Bene: e dove sta il nuovo in tv?

Quel rigurgito elettoral-televisivo continuò?
Dopo cinque anni di centrodestra, con un legittimo controllo sulle principali reti (Rai, Mediaset e La7), il partito di maggioranza, Forza Italia, perse 1 milione e 800mila voti. Tornarono le sinistre al governo per tre anni, ma la tv rimase la stessa degli anni ‘80. E nel 2008 gli italiani mandarono a casa le sinistre e fecero tornare le destre: senza che fossero cambiati gli orientamenti, ma sempre per l’insoddisfazione di ciò che vedevano la sera in tv.

Le prossime elezioni saranno a regime digitale. La tv come cambierà?
Dove c’erano sette reti ce ne saranno settanta, centoquaranta. Bisogna che si cominci a pensare a contenuti diversi. Qui c’è un altro dei grandi equivoci della comunicazione telematica. Da quando la pubblicità ne è diventata il determinatore dei contenuti, i programmi delle tv analogiche si sono attenuti alla regola di rispettare tutti perché potenziali consumatori. Col passare del tempo anche nelle tv generaliste ci sono stati alcuni più rispettati e altri ignorati. Col digitale ogni emittente si dovrà rivolgere a un certo tipo di utenti, con un certo tipo di interessi, di modi di vivere. E presumibilmente di votare. Tutto ciò sarà molto più fisiologico e sano.

La Rai cosa dovrebbe fare?
Potrebbe organizzarsi come la Bbc. Lì il governo nomina non solo gli amministratori ma anche i dirigenti di vertice.

La Bbc ha fama differente.
Chi la segue sa che guarda un portavoce del governo. Qualche anno fa il primo ministro Blair licenziò in tronco un direttore della Bbc perché nei tg aveva tenuto sulla guerra in Iraq una posizione diversa da quella del governo.

Nel 2008, in campagna elettorale, la Bbc manda in onda un Blair che, ignaro del microfono ancora acceso, chiama «bigotta» un’anziana elettrice con cui ha appena parlato a favore di telecamera. E per questo si scusa davanti in tv al Paese in tv. La Rai lo farebbe?
Potrebbe darsi. Comunque non vorrei parlare di Rai, dove ho lavorato.

Enzo Biagi diceva che il suo più grande torto era «di non dire mai di no e accontentare il più largo numero di questuanti».
Nominai Biagi direttore dell’unico tg, dopo che Arnoldo Mondadori lo aveva licenziato da direttore di Epoca su richiesta del presidente del Consiglio, il democristiano Tambroni, perché criticava il governo. A quell’epoca cercavo di riportare in Rai quelli che ne erano stati esclusi perché non simpatici alla maggioranza. Ero stato nominato nel dicembre ’60: due mesi dopo che il governo delle convergenze parallele di Fanfani aveva ottenuto l’istituzione di una tribuna politica dove le opposizioni (socialisti, comunisti e missini) avevano le stesse possibilità di espressione della maggioranza. Nemmeno la Bbc aveva allora una tribuna politica. Questo era il modo di pensare di Fanfani e di buona parte dei democristiani.

Mancano figure come quella di Biagi alla tv e al giornalismo?
No, per carità. La nostalgia non serve a nulla. Ogni tempo ha sue esigenze ed opportunità.

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